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Conversazione tra Roberto Pugliese e Olimpia Eberspacher

Notizia segnalata da MUSE - Museo delle Scienze
- (Foto da comunicato stampa)
- (Foto da comunicato stampa)
Nell'ambito della mostra "Concerto per natura morta" allestita al MUSE di Trento

Come è nata l’ide dell’installazione “Concerto per natura morta”?
Quest’opera porta avanti un filone costante della mia ricerca, quello del confronto tra naturale e artificiale. Nel 2010, nell’opera “Critici ostinati ritmici” avevo già lavorato con un tronco di albero cavo, sul quale avevo fissato dei solenoidi che, attraverso un impulso di corrente, creavano una texture sonora corrispondente alle statistiche riguardanti la deforestazione.
“Concerto per natura morta”, per quanto molto diverso, è lo sviluppo di quel progetto, uno step successivo riguardo l’utilizzo dei tronchi e lo sviluppo del suono.
L’installazione è fatta da tredici tronchi appesi al soffitto della galleria e al cui interno vi sono posizionati degli speaker che riproducono una mia composizione. Si tratta di un’elaborazione dei suoni da me registrati durante l’abbattimento e lo svuotamento dei tronchi, insieme a dei suoni non udibili dall’orecchio umano, captati tramite particolari tecnologie.

Cosa ti affascina nel rapporto tra l’elemento natura e la tecnologia?
Mi affascina la visione, il poter riuscire a dire altro, qualcosa di diverso, nell’ambito della tecnologia, il cui scopo per me è rendere migliore la vita dell’uomo. Non la vedo legata a concetti negativi, a qualcosa di deleterio per l’essere umano, e penso che proprio l’arte possa darle un “senso altro”. Il termine stesso tecnologia, dal greco “tékhne-loghìa”, significa letteralmente discorso, o ragionamento, sull’arte, dove con arte si intendeva, fino al XVIII secolo, il “saper fare”, quello che oggi indichiamo con la tecnica.
Saper quindi fare qualcosa a regola d’arte. L’arte è sempre stata tecnologica, lo sono anche il pennello e il cavalletto, e come diceva Heidegger “non si può prescinedere il lavoro dal mezzo con cui è stato fatto”.
È semplicemente un’ evoluzione adattata ai propri tempi. In base al mezzo che utilizzi il lavoro avrà un altro senso e quando l’ artista utilizza un mezzo a lui contemporaneo, significa che sta rappresentando se stesso nella società, nel suo momento storico. Non è altro che questo.

Sei laureato in Conservatorio in musica elettronica. Hai mai avuto la tentazione di “creare” della melodia? Sei mai stato tentato dai suoni che provenivano dalle altre aule, quelle dei corsi più tradizionali?
Come molti, ho avuto una formazione classica; ho studiato percussioni, composizione e poi mi sono avvicinato alla musica elettronica, di cui sono stato il primo laureato al Conservatorio di Napoli. Avrei potuto sfruttare questa formazione in diversi modi in ambito musicale, ma ho cominciato a interessarmi e a dedicarmi all’interazione tra suono e arte contemporanea e ho deciso di non comporre più.
Adesso mi piacerebbe provare a creare un ibrido, una forma che metta insieme tutte le connessioni possibili tra musica cosiddetta tradizionale e quella elettronica. Le idee sono molte, e molta è la voglia di ricercare, vedremo dove mi porterà tutto ciò.

I tronchi della tua opera provengono dal Piemonte, per te, partenopeo, profondo nord. Ho pensato a Glenn Gould, che nel suo documentario sonoro The Idea of North evidenziava come le estremità settentrionali siano “un luogo per meditare con sobrietà, un memento salutare ed indelebile dei limiti del potere umano”.
C’è una motivazione simbolica, oltre che pratica, nell’essere andato a cercare i tronchi in Piemonte?

Per un periodo ho vissuto in quelle zone e le conosco molto bene. Sicuramente mi ha sempre affascinato il forte contatto con la natura e il senso di incontaminazione che vi si respira. Per me sono dei luoghi con una forte poesia, e sì, sicuramente creano una condizione più favorevole alla meditazione, alla riflessione, alla concentrazione. Questo è stato il motivo per cui sono andato lì, oltre al fatto che vi ho anche stretto delle importanti relazioni personali.

Parlando di Piemonte e di lavoro sui tronchi viene da se il rimando a Giuseppe Penone, che ha inserito, nei suoi tronchi cavi, della linfa vitale. Tu vi hai inserito i tuoi suoni…
Ovviamente ci ho pensato. Si tratta di un rimando che mi rende solo felice, essendo Penone un artista che ha una forza enorme nella ricerca e nelle opere. Trovo che l’idea di partire da un messaggio lasciato da un grande artista sia storicamente molto interessante e costruttiva. Un concetto viene ripreso, elaborato, contestualizzato e riempito di nuovi sensi. Qualcosa di estremamente importante; tutta la storia dell’arte è fatta di questo.

John Cage sosteneva che si sente semplicemente quello che si ascolta, non il suo possibile significato. Vuoi dare una lettura ai suoni delle tue opere? O quello che più importa è la ricezione e la sensazione che ne deriva?
Quello che mi interessa particolarmente nei miei lavori è creare una situazione per cui gli aspetti del sonoro, dell’estetica e del concetto che vi è dietro si incastrino uno con l’altro e creino un microambiente. Cage era legato alla visione del concetto del suono. Diceva: “A me non interessa il tipo di suono che verrà fuori dall’esperimento, a me interessa l’esperimento”, eliminando quindi la semantica all’interno del messaggio sonoro.
Io credo che qualsiasi suono organizzato possa in qualche modo diventare musica. Ne scaturisce però la riflessione su cosa è musica.

E su cosa vuol dire organizzare.
Certo, ma poi non ne usciremmo più…
Penso che la musica sia un sottoinsieme di regole legate a un grande sistema, che è il mondo del suono. Cioè ne è solo uno dei possibili infiniti sottoinsiemi. Per me i suoni sono infiniti e infinita è l’organizzazione che ne può scaturire.
Parlare di musica però è davvero generico, ci sto riflettendo molto in questo periodo e sto anche scrivendo un trattato a riguardo.
Nel 2014, la definizione che abbiamo di musica probabilmente è primitiva, bisognerebbe coniare tutta una serie di termini che amplino questo tipo di visione, di esperienza.

Molti artisti sostengono quanto sia necessario e di grande aiuto darsi un rigore, un metodo e una quotidianità nel lavoro. Tu come ti gestisci?
Penso che l’ispirazione non sia qualcosa che venga a comando né automaticamente. Sicuramente però il rigore mi ha concesso di essere più sereno nei confronti del mio lavoro. Un artista lavora tutti i giorni, continuamente, senza aspettare l’ispirazione. Prende da tutto ciò che lo circonda e rielabora. Non credo che lavorare in modo costante o avere certi tipi di ritmi possa aiutare ad essere più creativi, o ad avere maggiore ispirazione. A volte mi capita di avere idee a prescindere da qualsiasi impegno o mostra, altre volte invece solo in seguito a delle richieste precise.

Con quale artista in particolare ti piacerebbe lavorare?
Ce ne sono tanti. Con il mio maestro, Agostino Di Scipio, con il quale ho già avuto piacere di lavorare. Con Christina Kubisch, un artista sonora che reputo maginifica e con tanti altri, Thomas Saraceno, Ansih Kapoor…

Pensi che Napoli abbia in qualche modo influito sulla tua formazione artistica? C’è qualche aspetto della tua ricerca che pensi possa essere legato alla tua città?
Ognuno di noi fa i conti con le proprie radici. Napoli è una città con un’enorme energia e me la porto dentro. A livello di formazione devo moltissimo al mio maestro, Agostino Di Scipio, uno dei teorici e compositori di musica elettronica più famosi a livello mondiale.
Negli ultimi decenni, infatti, Napoli è stato un importantissimo centro per la musica elettronica colta. Peppino Di Giugno, per esempio, docente all’Università di Napoli, contribuì, con Berio e Boulez alla fondazione del dipartimento di Computer Music presso l’Ircam di Parigi, il più grande centro di ricerca musicale al mondo.

Ora vivi a Bologna, come ti trovi?
Napoli è sicuramente più effervescente di Bologna. Sono qui per praticità e per facilitare i miei numerosi spostamenti. Comunque ritengo fondamentale muoversi, mettersi in gioco, confrontarsi con altre realtà. Quando per esempio ho finito il Conservatorio, ho sentito la necessità di capire se il tipo di ricerca che stavo portando avanti fosse veramente interessante o se lo fosse solo perchè legata all’Italia e a Napoli. In quel momento ho sentito proprio necessario andare a Berlino. Dovevo capire se quello che stavo facendo aveva senso. Dopo un po’, quando l’ho capito, me ne sono tornato volentieri a casa!

Qual è stato l’aspetto più difficile nella realizzazione di quest’opera?
Tecnicamente trovare i tronchi morti, selezionarli e in seguito tagliarli. Avevamo deciso di non superare i 2m e 20 di altezza, mentre le circonferenze vanno dai 30 agli 80 cm. E’ stato molto complicato svuotarli; con un apposito macchinario abbiamo fatto un foro iniziale, ma il resto del lavoro è stato fatto a mano. Devo ringraziare le persone che mi hanno circondato e che si sono entusiasmate al progetto.



Pubblicato il 28 maggio 2014
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