Filtro agenda / Notizie

Lectio degasperiana 2018

- (Foto dal sito ufficiale)
Panebianco e Pombeni protagonisti della Lectio degasperiana 2018 su De Gasperi e il popolo

C’erano 450 persone oggi a Pieve Tesino, paese natale di Alcide De Gasperi, per la quindicesima edizione della Lectio degasperiana, l’evento pubblico che la Fondazione organizza per onorare la memoria dello statista trentino nei giorni dell'anniversario della sua morte. Ogni anno un tema inedito e una figura d’eccellenza per approfondire aspetti della storia italiana e trentina, della figura dello statista, della democrazia.
Dopo l’edizione del 2017, che ha visto l’intervento di Enrico Letta e Christoph Cornelissen sul rapporto fra Italia e Germania (nell’anno del cinquantesimo anniversario della morte di Konrad Adenauer), quest’anno la Fondazione ha invitato Angelo Panebianco e Paolo Pombeni che poco fa, nella tensostruttura accanto al centro polifunzionale di Pieve Tesino, si sono confrontati con il tema “De Gasperi e il popolo”.
I due relatori hanno mostrato da punti di vista complementari quale fosse l’idea dello statista trentino sul popolo e sulla democrazia e in che modo si possa fare oggi tesoro del suo insegnamento in una fase politica di radicale trasformazione.
Angelo Panebianco è professore di Scienza della politica presso l’università di Bologna e da trent’anni editorialista del Corriere della Sera e Paolo Pombeni è professore emerito di Storia contemporanea presso la stessa università, collaboratore del Sole 24 ore e già direttore a Trento dell’Istituto storico Italo-Germanico della Fondazione Bruno Kessler.
La Lectio, allietata dalle canzoni del coro Valsella di Borgo Valsugana, è stata introdotta dal sindaco di Pieve Tesino Carola Gioseffi e dal presidente della Fondazione Giuseppe Tognon.
Numerosi gli ospiti intervenuti a Pieve Tesino: fra questi il presidente della Provincia autonoma di Trento Ugo Rossi, il vicepresidente Alessandro Olivi, l’assessore Luca Zeni e l’ex assessore Carlo Daldoss, il Presidente del Consiglio provinciale Bruno Dorigatti, l’ex presidente della Provincia Lorenzo Dellai, il vescovo mons. Lauro Tisi, la Giudice costituzionale Daria de Pretis, la senatrice Elena Testor, il presidente dell’Istituto Sturzo (e vicepresidente della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi) Nicola Antonetti, il presidente del Consiglio provinciale di Bolzano Roberto Bizzo, i consiglieri della Provincia di Trento Giampiero Passamani, Walter Viola, Chiara Avanzo e Mario Tonina.
Hanno preso parte all’evento anche alcuni sindaci: Francesco Valduga (Rovereto), Fabio Dalledonne (Borgo Valsugana), Nicola Fioretti (Aldeno), Rinaldo Maffei (Nomi), Fabrizio Trentin (Telve), Alberto Vesco (Castel Ivano), Ivan Boso (Castello Tesino) Matteo Macilotti (Chiampo, provincia di Vicenza).
Ha inoltre partecipato anche la figlia dello statista Paola De Gasperi insieme ad alcuni famigliari e, fra le autorità militari, erano presenti il comandante provinciale della Guardia di Finanza Roberto Ribaudo e il comandante dei carabinieri di Borgo Valsugana Filippo Alessandro.

Fra gli altri ospiti intervenuti c’erano il presidente della Comunità Valsugana e Tesino Attilio Pedenzini, il presidente di A22 Luigi Olivieri, il magistrato, saggista e pronipote di don Luigi Sturzo, Gaspare Sturzo e vari esponenti del mondo politico fra cui Pierluigi Castagnetti, autore della Lectio degasperiana 2013, Giuseppe Matulli, Tarcisio Andreolli, Renzo Gubert, Aldo Degaudenz, Laura Froner, Claudio Eccher.

Erano inoltre presenti il Vicepresidente della Fondazione Alcide De Gasperi di Roma Armando Tarullo, alcuni professori dell’Università della Tuscia di Viterbo (che a Pieve Tesino ha un centro studi alpino), insieme a molti amministratori della Valsugana e del Trentino ed esponenti di vari enti e associazioni.

De Gasperi e il popolo - Angelo Panebianco (sintesi)

Intendo questo mio intervento come complementare rispetto a quello del professore Pombeni che è volto a ricostruire il ruolo che l’idea di popolo ha nel pensiero e nell’azione politica di Alcide De Gasperi. A me spetta invece il compito di mettere a fuoco il concetto di popolo dal punto di vista della teoria politica e di tratteggiare brevemente i caratteri dei movimenti politici detti populisti.

Affronto in successione tre argomenti fra loro connessi. In primo luogo, esamino rapidamente i significati che assume il termine “popolo” in età democratica, e le strategie retoriche che ne hanno fatto e ne fanno uso.  Distinguo due principali varianti: il popolo/comunità e il popolo/soggetto storico. Cerco di dimostrare che nel primo significato, il concetto di popolo non solo è compatibile con la democrazia così come si è affermata in Occidente ma, forse, è addirittura indispensabile per conferirle legittimità.  
Nel secondo significato, per popolo si intende un “soggetto storico” dotato di coesione, volontà e capacità di azione. Questa seconda variante, a mio giudizio, è invece incompatibile con la democrazia: è espressione di una concezione anti-pluralista, ostile alla dottrina individualista della cittadinanza nonché agli istituti e ai principi della rappresentanza democratica. Chi adotta quella concezione, per lo più, progetta di sostituire la rappresentanza democratica con un rapporto non mediato da istituzioni fra il leader e il popolo.
Il secondo tema qui considerato riguarda certi caratteri comuni dei movimenti che sono stati definiti populisti (i quali, tutti, si rifanno all’idea del popolo inteso come soggetto storico), si tratti del populismo russo o dei numerosi populismi latinoamericani. Facendo ricorso alle analisi di studiosi di questi movimenti cerco di tratteggiarne le caratteristiche principali. Risulta che il populismo sia una figura della politica contemporanea dotata di proprietà camaleontiche. Soprattutto, ha la caratteristica di combinarsi facilmente con differenti correnti ideologiche. Un capitolo della storia del populismo riguarda, ad esempio, il modo in cui istanze e linguaggi populisti vennero utilizzati dai totalitarismi del XX secolo.
La terza e ultima parte del mio intervento è dedicata alla congiuntura contemporanea, ossia alla affermazione di movimenti che molti osservatori qualificano come populisti nelle società occidentali (Stati Uniti ed Europa) contemporanee. Dopo una rapida panoramica sui movimenti di protesta nei Paesi in cui hanno registrato fino ad oggi i maggiori successi, passo a esaminare quelle che paiono essere le principali cause dell’attuale insorgenza populista.
Bisogna distinguere fra cause più contingenti (gli effetti di una decennale crisi economica, l’emergenza migratoria eccetera) che hanno ovunque favorito l’affermazione di movimenti di protesta, e cause di più lungo periodo che hanno influenzato i rapporti sociali nonché il funzionamento delle democrazie in Occidente. Fra i fattori scatenanti vanno sicuramente considerate certe precondizioni geopolitiche dell’insorgenza populista come i contraccolpi del declino relativo (politico ed economico) degli Stati Uniti nonché la crisi dell’Unione europea.
Secondo una tesi oggi molto dibattuta dagli studiosi della democrazia è possibile che le democrazie liberali occidentali (regimi ibridi che combinano governo della maggioranza e tutela dei diritti individuali di libertà) vengano prima o poi sostituite da democrazie illiberali (governo della maggioranza e affievolimento, o anche sospensione, dei diritti di libertà). Il passaggio dall’un tipo all’altro tipo di democrazia, sarebbe favorito/accelerato dal successo di movimenti populisti.  Tuttavia, è difficile generalizzare: le democrazie occidentali sono molto diverse le une dalle altre. È possibile che alcune risultino meglio attrezzate di altre, che siano in grado di neutralizzare o sconfiggere più facilmente gli effetti perversi che molti osservatori collegano all’insorgenza populista.

De Gasperi e il popolo - Paolo Pombeni

Non occorre che richiami, visti i tempi non facili in cui stiamo vivendo, la cautela con cui va maneggiato un termine/concetto come popolo. Specialmente in un uomo politico come De Gasperi che, per varie ragioni, nella sua vita dovette fare i conti con almeno tre contesti politici in cui il riferimento al popolo aveva assunto una valenza piuttosto divisiva. Ancor più per uomo che aveva fatto della politica, come scrisse alla moglie dalla prigione fascista il 6 agosto 1927, “la mia carriera, o meglio la mia missione” e che concludeva: “rimango sempre un “popolare”, il De Gasperi dei suoi giovani o dei suoi anni maturi”.

Popolare non solo perché così si definiva il partito trentino che aveva contribuito a fondare nel 1904 ancora nel quadro dell’impero asburgico o il partito in cui si era inserito nell’Italia a cui il Trentino era stato unito con le vicende della Prima Guerra Mondiale. Popolare perché De Gasperi era e si sentiva un figlio del popolo e lo rivendicava con fierezza. Lo fece non solo nella prima parte della sua esperienza politica, ma anche nel secondo dopoguerra.  A Trento, in un discorso del 20 luglio 1947 fece un riferimento diretto, cosa peraltro non frequente nella sua retorica: “io vengo da un ceppo di contadini e mio nonno lavorava quella magra terra –che è più roccia che terra- di Sardagna e so che cosa sia il lavoro e la fatica del contadino, che cosa sia la libertà del contadino, ed i bisogni di questo infaticabile lavoratore che dopo tutti i disastri riprende il suo lavoro, che non vale solo per lui e per la sua famiglia, ma anche vale per la nazione; c’è in me un senso profondo di rispetto per questo lavoro, che deve essere la base di rinnovamento sociale”.
Non era un passaggio occasionale, un cedimento al ricordo visto che parlava al congresso provinciale della Dc nella sua Trento, perché aveva esordito di essere “responsabile di fronte all’Assemblea Costituente, di fronte ai rappresentanti eletti dal popolo italiano, e sostengo e difendo la mia responsabilità dal banco del governo, davanti a tutti questi delegati del popolo italiano, a qualsiasi partito appartengano”. E aggiungeva subito: “non è che io comunque sfugga questo giudizio e non mi ci sottoponga: ammetto il principio di democrazia, ammetto il principio della sovranità del popolo, e opero e governo solo secondo questi principi”.
De Gasperi, che dichiarava apertamente il suo “desiderio di democrazia diretta popolare”, chiariva che essa presumeva “rispetto della libertà di opinione, rinuncia alla violenza, rinuncia a forme ostruzionistiche, affidamento alla forza della parola ed al giudizio del libero popolo”. Tuttavia egli sapeva bene quale ambiguità si nascondesse dietro la possibilità di appellarsi al popolo. È curioso infatti che proprio in questa circostanza egli citi subito un messaggio anonimo che gli era stato recapitato e che recava scritto: “Il popolo ti ringrazia per l’aumento del prezzo del pane e per le tasse spogliatrici fatte gravare su contadini e artigiani”. Lo statista non si faceva certo impressionare e spiegava con pazienza non solo quanto si era fatto per la necessità di impostare una politica finanziaria che evitasse l’incubo dell’inflazione (quell’incubo che, notiamolo, la sua generazione ricordava con preoccupazione avendo visto dove aveva portato la repubblica di Weimar), ma anche la necessità di agire per una politica credibile e creduta tanto all’interno quanto sulla scena internazionale.
Tornava così al tema del popolo che non andava adulato con “frasi sonanti o belle dizioni”, perché “ho imparato che bisogna guardare innanzitutto al popolo. Quando mi parlano di partiti, io li giudico da questo punto di vista: come servono il popolo? Io non servirei nemmeno la Democrazia Cristiana se non avessi la convinzione che la Democrazia Cristiana vuol servire il popolo. E il popolo vuol dire: il popolo come vive organicamente nel suo paese, nelle sue società, nei suoi focolari, nelle sue città. Non vuol dire il conglomerato posticcio improvvisato su di una piazza”.
Erano parole forti altrettanto quanto quelle della sostanziale conclusione di questo discorso. “Oggi bisogna dire che si domanda al paese e ai cittadini di ogni partito, una disciplina non al servizio di un partito o di un uomo, cancelliere e non cancelliere, una disciplina che si chiede non per l’adesione ad un partito, ad un governo che passa, ma una disciplina che si pretende per la libertà del popolo italiano, indipendentemente da qualunque governo e da qualunque partito”.
Così parlò De Gasperi in quel luglio 1947 quando ormai iniziavano a volgere a conclusione i lavori della Costituente. Ma aveva alle spalle una lunga vita di battaglie politiche, iniziate sin da quando era studente universitario a Vienna, e nell’ambito delle lotte che si svolgevano nell’impero asburgico da subito si era schierato per una scelta di posizionamento dalla parte del popolo. Eccolo allora che al congresso degli universitari cattolici a Borgo Valsugana, l’11 settembre 1905 tiene “un discorso popolare” che appunto si incentra su questo rapporto speciale.
“Questa mattina al vedere tanta piena di popolo che ci accompagnò qui quasi in trionfo mi tornava alla memoria un dialogo breve ch’io ebbi al congresso di Caldonazzo con un professore universitario della Germania. Il professore, avvezzo a vedere gli studenti aggirarsi in quell’atmosfera di birra e di fumo, già descritta dalla Stael, guardava attonito a quell’affollarsi di popolo sotto le loro bandiere, a quel confondersi di tutte le classi con gli universitari. Veda, interruppi allora la sua esclamazione di meraviglia, il popolo è grato agli studenti! Gli studenti hanno dichiarato di essere col popolo e per il popolo. Le opere non hanno smentito le promesse e il popolo se ne ricorda”.
Era un discorso ardente, ancora segnato dalla retorica cattolica, ma anche da quella pedagogia che voleva le élite come servizio alla comunità. Tipica la chiusa: “Promettiamolo qui e oggi, amici e colleghi, di fronte a questo popolo industre, di fronte a questo castello diroccato, testimonio di una gente non serva, ma fattrice dei propri destini. Gli anni che verranno sarà tempo di battaglia, le nostre energie giovanili cozzeranno giorno per giorno coi tempi ostili. Che importa! Siamo con Cristo e il suo popolo. Andiamo!”.
Egli si era formato a cavallo fra Otto e Novecento e l’appello al popolo aveva avuto nel XIX secolo una sua lunga storia. Non c’era stato solo l’esempio del bonapartismo, assai discusso e studiato nell’Europa di quei decenni. Più in generale l’esistenza di una frattura fra il popolo, talora addirittura connotato come “il buon popolo”, e le élite, era stata sfruttata nei più diversi contesti, dalla contestazione di matrice socialista nelle sue varie forme, a quella radical conservatrice che aveva lanciato la famosa distinzione fra paese legale e paese reale (un tema fatto proprio da vari movimenti che si riferivano alla chiesa cattolica che si riteneva la vera interprete del buon popolo a lei fedele). Su un altro versante, non esattamente sovrapponibile a questo, aveva fatto irruzione nella storia europea la questione nazionale: anch’essa voleva farsi promotrice del valore politico di popoli che si trasformavano in nazioni nel momento in cui la nazione si fosse riconosciuta, per citare una famosa formula poetica di Manzoni, “una d’arme, di lingua e d’altar”.
Si può capire come la faccenda, da questo punto vista, fosse spinosa in un contesto come quello dell’impero asburgico, che era un Vielvölkerstaat, noi diremmo uno stato multietnico, ma la traduzione esatta è uno stato di molti popoli. La costituzione imperiale del 1867, ottenuta dopo lunghe turbolenze e anche in conseguenza infine delle sconfitte nelle guerre italiane, neo nazionali per tanti versi, riconosceva all’art. 19 ai Volkstämme, cioè ai ceppi etnici presenti al suo interno, diritti di eguaglianza, di riconoscimento dell’identità linguistico-culturale nell’istruzione, nell’amministrazione e nella autopromozione delle diverse comunità.
Da un lato questo riferimento alla presenza di molti popoli si sarebbe mantenuta in forme più o meno liturgiche sino alla fine del regno degli Asburgo (si ricordi che nei proclami che dichiaravano l’entrata nella Prima Guerra Mondiale, l’imperatore usava l’incipit “ai miei popoli” – un plurale significativo), ma dall’altro la Duplice Monarchia sarebbe stata travagliata proprio dalla fine del XIX secolo in avanti dal sorgere di una complicata e tempestosa questione nazionale proprio fra la pluralità dei suoi popoli.
La questione era particolarmente calda in Trentino, dove era in atto una sfida che i tirolesi portavano alla identità italiana di quello che invece per loro doveva essere il Welschtirol. Quando il quotidiano di cui De Gasperi fu fatto giovanissimo direttore dal vescovo Endrici mutò il proprio nome da “La Voce Cattolica” a “Il Trentino”, i giornali di Innsbruck si allarmarono, vedendo nella nuova titolazione “una pericolosa concessione all’irredentismo nemico della Chiesa” sicché avvertivano i nuovi redattori, dietro cui avevano visto bene la nuova “Unione politica popolare”,  che “il popolo non vuole saperne del ‘fantastico’ Trentino e che faremmo bene a non scivolare nella china fatale del nazionalismo”. De Gasperi rispondeva con durezza che “di questo Trentino sapremo difendere la fede avita, i diritti nazionali e gli interessi economici” sottolineando che la questione di un sistema elettorale democratico non era rinviabile.
Quella tematica lo avrebbe posto in urto anche coi liberali, poco simpatetici con l’idea che sorgesse un partito cattolico ben radicato nell’elettorato e che di conseguenza cercavano di metterlo in difficoltà accusandolo di non battersi per l’italianità della sua terra. Ad essi il giovane direttore rispondeva a muso duro che quella battaglia si faceva “col combattere a spada tratta e con la massima energia la vostra [dei liberali] politica negativa, frasaiola e nullista, la quale ci ha ridotto nazionalmente così deboli. In poche parole noi vogliamo innanzitutto far opera di democrazia, perché solo attraverso questa e con l’elevazione economica potremo inaugurare una politica positivamente nazionale. E la nostra democrazia non è una parola, avete dovuto ammetterlo anche voi. E non assomiglia punto alla vostra, voi, che nel giornale di ieri avete il coraggio di attaccare una società di poveri segantini in Fiemme, i quali cercano onestamente e legalmente di migliorare le proprie condizioni. Ci vedete anche in questa società, che non è niente affatto confessionale, un prodotto della nostra politica? Ebbene sia segno che la nostra politica è buona, che la nostra democrazia è genuina e che noi ci interessiamo davvero delle classi popolari”.
La polemica sulla questione nazionale sarebbe durata a lungo. Essa gli consentiva un doppio fronte, verso i liberali e verso i tirolesi pangermanisti. Ai primi rinfacciava una politica che traviava soprattutto i giovani che “prediligono come è naturale le aspirazioni più radicali ed estreme e s’imbevono di un romanticismo nazionale”. Ma così si sarebbero formati degli uomini “divisi ormai moralmente dal popolo”, rinchiusi “nell’egoismo della loro carriera” e fatalmente destinati ad una collocazione di classe: “Ed eccovi costituita per un processo naturale la classe dei siori, quella borghesia che visse in buona parte di un nazionalismo astratto ed impopolare”.
Sull’altro versante attaccava i nemici del Volksbund, anch’essi soggetti ad improbabili appelli al popolo, sognanti riconquiste “per un anacronistico romanticismo misto alla moderna megalomania teutonica”.
Erano tempi difficili in cui sorgeva un populismo di nuovo stampo, che, senza del tutto abbandonare le antiche formule reazionarie, puntava ora su un nazionalismo di nuovo conio. De Gasperi coglieva con acutezza il passaggio storico. Così il 25 febbraio 1913 con ormai all’orizzonte la crisi politica europea (è una leggenda che la Prima Guerra Mondiale scoppi inaspettata) l’ormai affermato leader cattolico, che dal 1911 era parlamentare a Vienna, rifletteva su un tornante che vedeva lucidamente. Da un lato il chiudersi del lungo Ottocento sociale: “Avevamo avuto un lungo periodo di pace e di ricostruzione civile. Per quasi cinquant’anni ogni sforzo nazionale parve concentrarsi nell’intensificare e nel migliorare la vita sociale. Non s’è parlato che di rappresentanza proporzionale degli interessi, di protezione delle classi deboli, di equa distribuzione del benessere, e proprio negli ultimi anni si studiava e si preparava ‘l’assicurazione sociale’, le pensioni per gli invalidi e gli indigenti, la garanzia dei forti in favore dei deboli”. Ma ora il vento era cambiato come mostrava la Francia che, pur avendo al governo “demagoghi radicali e tribuni socialisti”, aveva appena varata una legge sul prolungamento a tre anni del servizio militare di leva. “Che cosa sarà di altri Stati ove la potenza militare è l’ideale di un’educazione e la garanzia a cui in mancanza di altre più sicure sono tentati di ricorrere i dominanti? Ritorniamo dunque proprio indietro? All’epoca sociale seguirà un’era imperialista e nazionalista?”
La domanda avrebbe presto trovato una risposta purtroppo positiva con lo scoppio della Grande Guerra.  Dopo anni molto duri, in cui si sarebbe visto dissolversi il rapporto che indubbiamente legava una parte consistente delle classi popolari trentine al vecchio orizzonte a causa della dissennata politica contro gli austro-italiani condotta dalle autorità asburgiche, si giunse all’inclusione del Trentino nel regno d’Italia.
C’era scarso entusiasmo in Italia per far gestire il passaggio del Trentino nel nuovo sistema in un quadro di rappresentatività democratica dal basso. Era stata sì istituita una Consulta delle forze politiche locali, ma il suo peso era modesto. Così De Gasperi interveniva il 24 giugno 1919 dalle colonne del suo giornale, che aveva riaperto col titolo de “Il Nuovo Trentino”, esponendosi senza riserve: “La Consulta trentina nella sua ultima seduta ha proclamato alto e forte un principio di democrazia e di libertà ed ha anche indicato il mezzo per attuarlo. Principio. Il sistema di amministrazione di un paese non dev’essere imposto dalla burocrazia, ma determinato dal popolo stesso. Mezzo. Indire le elezioni in base al suffragio universale e proporzionale e dare incarico a questa rappresentanza popolare in tal modo eletta, di fare le proposte concrete”.
La battaglia perché il Trentino entrasse nel sistema politico italiano forte di una propria visione ed esperienza della democrazia fu combattuta da De Gasperi anche con l’adesione del suo vecchio partito al nuovo Partito Popolare Italiano promosso da don Sturzo. È però significativo ricordare che nell’assemblea costitutiva della nuova formazione, il 14 ottobre 1919, l’ormai affermato leader politico non mancava di rinviare ancora una volta la nozione di popolo alla sua dimensione di comunità strutturata. “Attingiamo anche qui del resto alle fonti più pure della nostra storia. Le nostre vicinie, i nostri municipi, le nostre comunità che cosa furono se non i gangli più vivi e resistenti del nostro organismo di fronte alla prepotenza assorbente del dominio straniero e questi gangli a che cosa ci ricongiungono se non alle fulgide tradizioni dei comuni italiani che irradiarono tanta civiltà nel mondo? / Non abbiate quindi paura, voi che vi chiamate progressisti e siete pur così putibondi conservatori, in un momento in cui altri parla di costituente, e altri ancora organizza un supremo sforzo per conquistare la dittatura, di proclamare alto il diritto alle nostre libertà e di rivendicare le nostre autonomie. Non ci parlate semplicemente di decentramento amministrativo, cosa desiderabilissima anche questa, ma cosa vale un decentramento delle istanze burocratiche, se non vi è unito un proprio e fondamentale decentramento dei poteri?”
Quella battaglia per l’autonomia non avrebbe ottenuto risultati per il rapido avvento del fascismo con la conseguente espulsione di De Gasperi dalla politica attiva. Non certo domato, egli avrebbe coltivato come e finché gli era possibile una sua attività di pubblicista sia pure sotto pseudonimo. Durante i lunghi anni del regime l’ultimo segretario del PPI non avrà molte occasioni di tornare a parlare espressamente del suo concetto di “popolo”: visto l’uso che del termine facevano Mussolini e i suoi seguaci e quello, assai aggressivo, di Hitler e del nazismo non era davvero possibile esporsi su una materia tanto incandescente per un soggetto che era e rimaneva un “sorvegliato speciale” degli organi di regime. Nonostante questo De Gasperi trovò più volte modo di tornare sul tema del costituzionalismo e dell’apporto che ad esso, contro quello che si sosteneva, a volte anche dall’interno della Chiesa, avevano dato i cattolici. E non c’è dubbio che il tema del costituzionalismo chiamasse in causa la sovranità popolare e, sia pure con passaggi progressivi, la democrazia.
Gli interventi scritti in questo periodo risentono ovviamente delle contingenze, ma è comunque possibile trovare in essi notazioni interessanti, perché ripetute. Non è qui possibile esaminarle, ma sono importanti perché testimoniano della riflessione profonda che De Gasperi aveva fatto in tema di democrazia. Più volte aveva ricordato come il partito cattolico tedesco, lo Zentrum, non aveva avuto difficoltà a collaborare alla stesura della costituzione di Weimar che prevedeva non solo la sovranità del popolo, ma anche la repubblica. Citerà molte volte il volume di James Bryce, Modern Democracies, dove questo importante studioso e politico, inglese e gladstoniano, aveva riconosciuto l’apporto delle chiese alla costruzione della moderna libertà politica. Lo farà anche in un intervento polemico contro la Storia d’Europa di Croce che invece quel merito ai cattolici non aveva voluto riconoscerlo. Era così amareggiato che a Stefano Jacini scriveva: “Siccome a sentire il Croce – ed è un maestro fra molti – nessun credente nella vita ventura può essere un liberale cosciente, sai dirmi ove potremmo collocarci noi, ed un discreto numero di nostri antenati spirituali?”.
Non che il suo pensiero fosse fermo al costituzionalismo liberale dell’Ottocento. Nella sua anonima rassegna internazionale che usciva sull’ Illustrazione Vaticana, il 1 settembre 1935 scriveva: “Un'altra reazione si annunzia e si consolida e sta creandosi una teoria ed una dottrina. È il pluralismo sociale che si vuol opporre al totalitarismo statale, ultimo corollario dell'individualismo assoluto. Abbiamo già messo in rilevo la dottrina pluralista del Maritain, che, risalendo in fondo alla scolastica, distingue nettamente fra Società e Stato, il quale della società è parte, come sono parte le persone e le istituzioni intermedie. Una dottrina similare è ora svolta sistematicamente, nel suo aspetto soprattutto giuridico, da un non cattolico, il prof. Gurvitch, nel suo recente libro: L'idée du Droit social.”
Dovevano passare ancora lunghi e difficili anni, ma alla fine si sarebbe prospettato il crollo del regime e la possibile riapertura di un futuro politicamente nuovo. Dettando ad inizi del 1943 un suo “Testamento politico” scriveva, indirizzandosi a chi, dopo il crollo, “darà la sua opera alla ricostruzione dello Stato italiano”, che l’obiettivo da porsi doveva essere: “Instaurare la pace del popolo, abolire cioè i privilegi di partito e di classe, ridestare nei cittadini il senso della responsabilità e l’interessamento, ora morto, per la pubblica cosa, ecco una prima meta della libertà politica”. E proseguiva: “Eliminando quindi ogni discriminazione di partito, di classe e di razza ricostruiremo la democrazia italiana sulla base del suffragio universale, come espressione dei diritti generali del cittadino: sistema che ha incontrato obiezioni, ma al quale, dopo molteplici esperienze, si è finito sempre col ritornare, come ad uno strumento rappresentativo che più di ogni altro soddisfa la tendenza popolare all’eguaglianza politica, pur senza impedire l’emulazione dei migliori”.
De Gasperi auspicava una nuova democrazia sociale ed economica, ma, non rinunciando al suo consueto realismo, ammoniva: “Vero è che il funzionamento della democrazia economica esige disinteresse, come quello della democrazia politica suppone la virtù del carattere. L’opera di rinnovamento fallirà, se in tutte le categorie, in tutti i centri non sorgeranno degli uomini disinteressati, pronti a faticare e a sacrificarsi per il bene comune e la democrazia politica sarà una parola vana se gli uomini che se ne fanno sostenitori non si sentiranno legati dalle ferree leggi della solidarietà che derivano dalla morale e dall’onore”.
Il rinvio alla propria tradizione storica era forte nel periodo di preparazione della svolta democratica. Lo vediamo sviluppato in un  intervento del dicembre 1943, in cui scriveva che «la molteplice esperienza mondiale negli ultimi 150 anni porta alla conclusione che il metodo più adatto alle presenti condizioni della convivenza umana è il metodo della libertà e la miglior forma politica una democrazia rappresentativa fondata sull'uguaglianza dei diritti e dei doveri. Né partito unico, né cesarismo plebiscitario, né monarchia assoluta, né repubblica dittatoriale, né l'oligarchia dei ricchi, né la dittatura dei proletari».  Seguiva una importante integrazione che, sia pure da un altro punto di vista, andava a specificare il suo approccio alla moderna questione democratica: “Il partito è uno strumento organizzativo atto a fungere su di un solo settore della nostra comunità nazionale, quello dello Stato. E come per noi pluralisti (nel senso di Maritain e di Sturzo) lo Stato è l'organizzazione politica della società, così il partito è un organismo limitato che non deve proporsi di tutto rifare e riordinare in tutti i campi, ma suppone che altri organismi sociali agiscano nello stesso tempo e nello stesso spazio su diversi piani …”
La riaffermazione del rapporto fondativo fra libertà, costituzionalismo e partecipazione del popolo alla costruzione della sfera politica era contenuta anche nel suo intervento alla prima assemblea della sezione romana della Democrazia Cristiana nel luglio 1944. “La Democrazia Cristiana è un partito di riforme, meglio di rivoluzione, ma in questo mai dovrà perdere di vista il supremo bene della libertà. Questo bene deve essere gelosamente custodito e strenuamente difeso. Quale che dovrà essere l'avvenire, è necessario che avvenga costituzionalmente e per volontà del popolo, e che non ci sia imposto con dimostrazioni di piazza e con violenze private.”
Non c’è tempo qui per esaminare i molti interventi in cui nel periodo costituente e dopo la sua affermazione alle elezioni del 18 aprile 1948 torna a ribadire la sua profonda convinzione per il regime democratico, come regime di popolo, ma di popolo concreto, che trovava la sua forma nelle istituzioni politiche che certo nascevano dalla sua volontà, ma che diventavano poi dei vincoli all’azione delle sue componenti.
Mi piace invece concludere citando due passaggi di due discorsi del 1950. Era quello un anno difficile, di tensioni sociali, che aveva richiesto anche uno sforzo di unità alla Democrazia Cristiana, tanto che si era, almeno momentaneamente, composta la frattura con la sinistra dossettiana chiamando il suo leader a riassumere la vicesegreteria politica del partito.
Parlando il 22 ottobre al congresso dei capi partigiani delle formazioni non comuniste, De Gasperi, in forte polemica coi comunisti, richiamava il carattere democratico che aveva avuto la resistenza fondando un regime che doveva durare: “domani ci può essere un’altra maggioranza diversamente costituita, ma il principio non deve essere perduto: istituzioni libere e possibilità di trasmissione diretta della sovranità del popolo; questa è la libertà politica della sovranità del popolo”. Non era un inciso, la questione della fondazione popolare del sistema politico non poteva essere evitata: “arriva un momento in cui si impone il dovere morale di difendere il carattere di una nazione, la dignità di un popolo. Ed allora, diamo contenuto a questa parola di patriottismo, a questa parola di nazione, diamo un contenuto che si inquadri nei nostri valori storici e soprattutto quella parola applichiamola al popolo. Non è più il momento di decidere delle questioni in piccola gerarchia o rappresentanza di classe. È il popolo italiano l’attore principale, non dimentichiamolo”.
In chiusura del suo intervento lo statista si lasciava andare ad un passaggio quasi lirico. Sebbene non sia esatto descrivere la retorica degasperiana come priva di pathos, perché sapeva anche trovare accenti forti che muovevano il suo uditorio, è però vero che il passaggio che ora cito è molto particolare per impatto emotivo.
“Con un pensiero vorrei concludere: la nazione è anche una storia, una tradizione, un complesso di sentimenti, un complesso di idee che continuamente rifluiscono di generazione in generazione; ma la patria vivente in cui dobbiamo lavorare e che dobbiamo difendere, è il popolo italiano. E quando diciamo di amare la patria, bisogna voler dire: lavorare, continuare nello sforzo pazientemente, fino a che al popolo italiano sia data la possibilità di una giustizia sociale che oggi non ha”. E continuava, rivolgendosi direttamente al capo partigiano Riccardo Mauri, un simbolo vivente della resistenza autonoma nelle Langhe: “Anche qui, amico Mauri, io credo che saremo d’accordo, perché in un suo libretto ho trovato ricordata una canzone dei partigiani del Piemonte in cui si precisavano gli scopi della guerra di liberazione. Le strofe erano diverse, ma una mi ha colpito specialmente: perché combattere? E la canzone partigiana rispondeva: ‘perché questa antica parola popolo suoni divina – al mio compagno signore – e a me stirpe contadina”.
Su questi concetti, incluso quello di una sua estrazione dal popolo, De Gasperi sarebbe tornato poco dopo, il 5 novembre 1950, in un discorsoa Modena in cui puntava a spiegare come tutta l’opera del suo governo fosse orientata alla realizzazione di una democrazia sociale.
Affrontava nell’occasione una questione assai calda in quel momento: l’accusa da parte delle sinistre “di mancata fede verso il popolo”. Puntualizzava come di fronte a questi attacchi non si fosse reagito con la repressione, ma ciò rientrava nella consapevolezza di non volere un sistema di guerra per bande. “No! –tuonava De Gasperi – Unità dello Stato, unità del popolo come è organizzato dal governo. L’Italia è un paese povero che non arriva a mantenere i suoi figli: lo sappiamo, ma sappiamo anche, con tranquilla coscienza, di fare ogni sforzo per il bene del popolo”. E qui richiamava l’impegno per le riforme e per gli interventi sociali e aggiungeva: “Si dice che De Gasperi in queste cose è un poco sinistroide; la verità è che io sono nato figlio del popolo, mi sono sempre trovato in mezzo a lavoratori, ho sentito la loro miseria, sono parte del popolo minuto e sento che questo popolo ha delle ragioni da far valere e che c’è una giustizia da compiere”.
Potrebbe sembrare un passaggio che si apriva ad un linguaggio populista, ma non era così. Il presidente del consiglio prendeva di petto le accuse comuniste che dipingevano la politica italiana come vittima di un “regime di oppressione” guidato da “uomini maledetti” (erano citazioni di un comizio del PCI proprio a Modena) e rispondeva che invece “tutto indica che la Repubblica italiana è un regime aperto ad ogni progresso e soprattutto all’avvento delle masse popolari e del popolo”
Era questa l’affermazione che più stava a cuore al “popolare” Alcide De Gasperi perché rappresentava non solo ciò per cui si era battuto tutta la vita, ma la sua stessa storia personale, come si vede bene in questo passaggio. “Non è vero che si possa parlare politicamente di una casta dominante. Che casta? La gente che sta al governo oggi viene dai ceti contadini, dai piccoli proprietari, dal ceto medio dei lavoratori. Sono figli del popolo che appartengono anch’essi al popolo. Dove sono questi rappresentanti della classe dominante che vogliono restringere, mantenere a sé il potere? È una frase, una menzogna convenzionale. Questo è un governo di popolo, un governo che si fonda sopra la maggioranza popolare, pronto ad andarsene domani quando ci fosse un’altra maggioranza; perché questa è democrazia e questa è libertà”.
Era magari una visione ideale che avrebbe ricevuto non pochi colpi dalla realtà politica degli anni seguenti, ma costituiva la sintesi del percorso che il figlio di una famiglia del popolo aveva fatto nella storia politica dell’Italia e dell’Europa. Un percorso in cui non aveva mai dimenticato che era la “democrazia moderna” l’orizzonte in cui ci si doveva muovere e che in essa il popolo era una componente costitutiva: ma il popolo concreto che vive nelle istituzioni sociali, culturali e politiche che gli danno forma e lo rendono attore e costruttore del destino comune, non il popolo fantasma che amano evocare i demagoghi di tutte le risme, uno spettro in cui incarnare ciò che essi vorrebbero prendesse forma come risultato delle loro fantasie.



Pubblicato il 20 agosto 2018
Cerchi altri eventi/informazioni?

Filtra gli eventi in calendario tramite il pulsante
+ Filtro agenda.
Consulta la sezione soggetti e luoghi per visionare le programmazioni dettagliate dei singoli inserzionisti.
In Eventi suggeriti e Notizie e comunicati alcuni eventi e contenuti in evidenza.
Vuoi sapere chi siamo, come funziona il servizio o metterti in contatto con noi?: chi siamo, servizi e pubblicità.


Soggetti e luoghi
Consulta l’elenco completo dei nostri inserzionisti nella sezione dedicata


Advertising